Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Abbiamo trascorso molti anni di indifferenza festaiola confortati o avviliti dalla bieca metafora idrocarburica, inventata per decorare il patrimonio culturale italiano con tanti lustrini che odoravano di denaro. Sappiamo com’è andata a finire, anzi possiamo dire che non è mai cominciata. Poi, mentre saliva imperiosa l’onda catodica ci siamo trovati per le mani le classifiche dell’orgoglio dimensionale, fondate sulla leggenda che attribuisce all’Italia tre quarti (o due terzi, fate voi) del patrimonio culturale mondiale; va ricordato che la cosa è il frutto di un’inferenza sciocca derivante dal dato sui furti d’arte in Europa: se qui rubano tre quarti delle opere rubate nel continente vuol dire che le proporzioni sono queste. Totò, almeno, avrebbe accompagnato l’affermazione con un sorriso beffardo. Adesso, in un lungo periodo di vacche magrissime, è del tutto naturale ricorrere alla metafora gastroenterologica: con la cultura si mangia o si digiuna?
L’equivoco che piace tanto ai giornali genera una disputa tra guelfi (che vorrebbero nostalgicamente un ordine pubblico e sacrale, come quando le truppe papaline spogliavano il Colosseo ma costruivano magnifiche facciate barocche) e ghibellini (che prefigurano una cultura efficiente per iniezioni di denaro privato e una certa disinvoltura nell’uso del patrimonio culturale). Essere di parte giustifica la crociata di entrambe le armate, ma forse drena un pochino la ragionevolezza che magari costruisce meno proclami e rende fertili i dubbi. Andiamo al nocciolo della questione. La cultura esiste per generare reddito? No. Per mantenere in vita un sistema di vincoli e barriere che arginano la barbarie e coccolano gli iniziati? No. Per consentire a un Paese, esausto come il nostro da un esodo massiccio di risorse e talenti, di mostrare qualche muscolo superstite nelle dispute internazionali da barzelletta? No. Per attrarre turisti o sedurre imprenditori stranieri? No.
Certo, può fare più effetto snocciolare cifre che mostrano la dimensione davvero negligibile della spesa italiana per la cultura, degli incassi dei musei e dei teatri, dei ricavi che derivano dalla vendita di servizi culturali, aggiungerei dell’indifferenza conclamata verso la formazione, la ricerca e la circolazione delle idee. La questione è ben più delicata e complessa di un mero confronto dimensionale, come sottolineano in un recentissimo articolo gli economisti Enrico Bertacchini e Pier Luigi Sacco: è vero che spendiamo poco, ma soprattutto spendiamo male; è vero che la cultura attira, ma soprattutto si innerva nei gangli di un’economia dinamica e multiforme. Per farla breve, sarebbe il caso di trasformare il dualismo un po’ becero che contrappone pubblico a privato in un ragionamento strategico sulle alleanze; di ridisegnare le regole del sostegno pubblico spostandone il peso da una pezza pietosa sulle falle di bilancio verso uno scambio per benefici infungibili e di lungo periodo; di riscrivere la mappa delle professioni preferendo l’ibridazione e la flessibilità alle gabbie protettive e disincentivanti di un regime bizantino.
Facciamo un semplice esercizio: se un museo o un teatro possono generare reddito e occupazione, ne generano molto di più un centro commerciale o un villaggio turistico. Non conviene mai usare agromenti che possono essere facilmente girati contro di noi. Proviamo invece a eliminare la cultura dalle nostre mappe urbane: che mondo sarebbe senza cultura? Veloce, funzionale, efficiente e privo di sbavature, forse, ma certamente grigio, ostile, privo di segni della nostra stessa presenza, indifferente a qualsiasi stimolo e incapace di darci quello che ci rende vivi: la rappresentazione del sé, la capacità di ragionare, di indossare un paio d’occhiali critici e poetici, di imparare più di quello che sappiamo insegnare. Ecco il vero impatto della cultura: senso di appartenenza, qualità della vita, relazioni fertili, immaginazione, capacità di inventare scenari nuovi e di attraversare la soglia delle certezze rassicuranti e noiose. Vale la pena che ciascuno metta sul tavolo i propri ingredienti (pubblici e privati, comunitari e individuali). Che poi si possa mangiare, va bene. Ma certamente possiamo star sicuri che con la cultura si trasforma la realtà, si moltiplica il valore delle cose e delle idee, si attiva un metabolismo critico infinito. In una parola con la cultura si cucina.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro